I racconti della Tetide

Storie di dinosauri (e non) nel mare del Mesozoico



Vita di Ciro

"To live is to run. Running away from death, into death."
Brian Carter


L’albume dell’uovo ribollì e scompigliò le piume di Ciro. Tutto il nido tremò.I pigolii spaventati degli altri piccoli dinosauri echeggiarono nella buca in cui l’intera covata era sepolta. Granelli di sabbia e terriccio ticchettarono sul guscio di Ciro e poi scrosciarono violenti. La terra si scosse una, due, tre e quattro volte. E poi altre quattro, in un ritmo cadenzato.Il pulcino nascose ancora di più il muso sotto la zampa anteriore. Non aveva ancora schiuso l’uovo e già sembrava che il mondo stesse per crollargli addosso.Un tuono vibrò nel terreno, dentro il guscio e attraverso l’albume. Ciro raggelò fin nelle ossa. Qualcosa di enorme incombeva proprio sopra il nido. I piccoli già schiusi ammutolirono. Un paio di loro si schiacciarono contro l’uovo di Ciro, alla ricerca di un riparo. A separarli dal resto del mondo c’era solo un manto di terriccio.Ciro sentiva i loro cuori sbatacchiare contro il suo guscio.
Il tempo si fermò. Tutto il nido rimase immobile.
Poi il tuono riprese, insieme agli scrosci di granelli, ma divenne sempre più debole, una vibrazione di sottofondo che poi svanì.
I pulcini già schiusi presero quindi a pigolare con energia dal profondo della pancia. Incitarono i fratelli a seguirli fuori dall’uovo, verso il grande mondo all’esterno.
Ciro si strinse ancora di più nel suo rifugio acquoso. Le piume ancora gli tremavano per la paura. E se quella cosa gigante fosse tornata? Avrebbe potuto schiacciare tutto il nido se si fosse accorta di loro…I suoi muscoli però presero a pulsare, stanchi del torpore dell’uovo. La coda si agitò e le zampe non trattennero uno scatto, pregandolo di lasciarle correre.
Sempre più cuccioli stavano rispondendo al richiamo dei fratelli maggiori. La voglia di cominciare la vita era più forte del terrore indotto dal tuono e Ciro non riuscì a trattenersi oltre: premette il muso contro il guscio, sempre più forte, finché non sentì la piccola escrescenza sul suo muso bucare la superficie.
Aprì una piccola fessura. Scosse il capo per allargarla e l’aria fredda penetrò nell’uovo. Bruciò le narici di Ciro e gli riempì il petto. Il cucciolo emise un paio di singhiozzi acuti, ma al terzo respiro mise la testa fuori dall’uovo e pigolò vittorioso.Aprì gli occhi. Nella penombra del nido, i musi dentati dei suoi fratelli si affollavano gli uni sugli altri. Lo spazio nella buca si stava riducendo, così qualcuno prese a scavare verso l’alto. Un fascio di luce tagliò in due il nido e Ciro fu trascinato dai suoi fratelli nel mondo esterno.Le sue zampe affondarono nel terreno morbido di sabbia e foglie morte. Sotto le fronde degli alberi stagnava un’aria oleosa che sapeva di legna marcia. Dalle cortecce si diffondeva l’aroma fragrante della resina sbriciolata e il vento portava zaffate di sale che graffiavano l’interno delle narici.Ciro bevve tutti gli odori della foresta e fu preso dalla voglia di annusare qualsiasi cosa attorno a sé.La terra ebbe un sobbalzo. Un tremito risalì dai piedi di Ciro fino alla punta della coda.
Il cucciolo e i suoi fratelli si guardarono attorno. Il bosco era immobile.
Ciro mosse qualche passo incerto per allontanarsi, ma inciampò in una fossa poco profonda. Uscì e la guardò dall’alto: era rotonda e davanti mostrava il segno di un dito tozzo e artigliato impresso nel terreno.Una nuova ondata di paura attraversò le ossa del cucciolo. Vicino al suo nido era passato un gigante.

Ciro sentiva la terra vibrare praticamente ogni giorno. Era una specie di solletico sotto le zampe, ma gli alberi e le felci rimanevano sempre immobili. Forse quelli non erano passi, ma fenomeni come la pioggia e il vento: cose da accettare e basta. Magari quella accanto al suo nido era solo una buca…La sera del suo secondo giorno, però, Ciro seguì l’odore del sale fuori dalla foresta. I granelli di sabbia gli solleticarono le squame e davanti a lui si aprì un cielo immenso, sfavillante di tanti puntini luminosi. La volta di stelle abbracciava tutto il mondo attorno a Ciro ma finiva bruscamente all’orizzonte, divisa con una linea netta da una distesa d’acqua nera.Il piccolo dinosauro mosse qualche passo avanti, gli occhi che andavano da un lato all’altro della spiaggia. Era la prima volta che camminava senza la protezione degli alberi e la paura gli teneva le piume ritte, attente.La sabbia si fece molle. L’odore di sale era così forte che le narici di Ciro frizzavano. Il cucciolo fece per bere un sorso, curioso, ma l’acqua si ritirò bruscamente. Si raccolse qualche passo più avanti in una piccola gobba e poi ricadde in avanti con uno scroscio. Strisciò sulla sabbia verso Ciro, che scappò prima di essere inghiottito da quell’acqua viva.Dopo un istante quella tornò indietro e al suo posto rimasero dei sassolini appuntiti che… si muovevano. Dalla base sbucavano delle zampette articolate e un paio di braccia che rovistavano nella sabbia.Le cose che si muovevano andavano mangiate, pensò Ciro. Schiacciò tra le fauci il sassolino con le zampe: solo l’esterno era un po’ duro, ma il ripieno morbido gli scivolava sulla lingua.La distesa di acqua salata rigurgitava un sacco di bocconcini del genere e altri persino più grossi che rimanevano intrappolati in alcune pozze nella parte più interna della spiaggia. In una di queste, tra le croste di sale bianchissimo, Ciro scorse un luccichio di scaglie.Balzò all’interno e dopo un po’ di corse strinse tra le fauci il corpo sottile di un pesce. Dovette ingoiarlo in due morsi e fu pervaso da un caldo senso di appagamento.Per quella sera poteva anche bastare.Accanto a quella pozza però c’era un’altra buca, rotonda, con una punta aguzza impressa nella sabbia. E non era l’unica: un’intera pista di gigante correva parallela alla distesa d’acqua salata per poi entrare nella foresta.Ciro spostò il peso da una zampa all’altra, senza sentire nessuna vibrazione. Doveva essere una traccia vecchia.La seguì e incrociò alcuni dei suoi fratelli, intenti a rovistare il terreno all’interno delle impronte. Gli soffiarono contro con le fauci ancora piene di vermi e poltiglia sanguinolenta e lui affrettò il passo.Trovò riparo tra le foglie palmate di una giovane pianta. Il gigante gli faceva meno paura, ora che sapeva quanto cibo poteva trovare nelle sue impronte.

La mattina dopo, Ciro seguì la pista del gigante. Nel terreno morbido, schiacciato dalla zampa, si trovavano un sacco di animaletti mollicci, a volte rivestiti da una cuticola croccante. Ascoltare gli schiocchi e i risucchi tra le sue fauci dava una certa soddisfazione e prima di mezzogiorno Ciro sentì una dolce pesantezza allo stomaco.Forse però c’era ancora spazio per qualche altro bocconcino. Alla fine, era meglio di più che di meno.Il piccolo dinosauro si sporse su una nuova impronta. Le piume gli si rizzarono di colpo a vedersi riverso nel terreno, con le viscere spremute fuori dalla bocca e il corpo schiacciato come una foglia secca. Uno dei suoi fratelli lo fissava con l’occhio dorato perso nel vuoto e le piume marroncine appiccicate addosso dall’umidità.L’odore acre del sangue era ancora forte, ma Ciro provava una strana repulsione per quella carne, che si mischiava alla paura gelida impressa nelle sue ossa.Un crepito di legno gli fece scattare in alto la testa. Nell’aria si diffuse l’odore di corteccia bagnata. Un tronco si schiantò contro il terreno e i rami schioccarono secchi.Sotto le zampe di Ciro passò una vibrazione che lo fece barcollare.
Davanti a lui, alla fine della pista, c’era un gigante.
Da sopra gli alberi arrivò un brontolio lugubre. Ciro alzò gli occhi fino a scorgere una testolina squadrata in cima a un collo spesso quanto un fusto d’albero.
I muscoli del piccolo dinosauro formicolarono. Doveva correre. Scappare il più lontano possibile.
Forse fino alla grande acqua…
Il suo corpo però era diventato di pietra.
I passi del gigante gli attraversavano le ossa, uno più forte dell’altro, ma Ciro non riusciva a muoversi. Voleva solo rannicchiarsi nel suo uovo, al sicuro. Era successo anche a suo fratello? Per questo era stato spiaccicato?Dal bosco emersero le zampe del gigante, munite di un unghione grosso quanto Ciro stesso.
Come poteva esistere qualcosa di tanto grande?
Il vento cambiò direzione. Il sale della brezza graffiò le narici del cucciolo.Ciro si riscosse e balzò indietro.
Corse nella direzione opposta al gigante. Un nuovo passo gli squassò le viscere.
A ogni falcata Ciro lottava contro la sensazione di cadere.
Scartò di lato per togliersi dalla portata di quelle zampe enormi. Un tronco cominciò a scricchiolare alle sue spalle. L’aria fischiò contro il legno e Ciro affondò le zampe nel terriccio per fermarsi.
L’albero cadde a due passi dal suo muso, sbarrandogli la strada.
Nella foresta rimbombò un brontolio cupo e l’ombra del gigante oscurò il sole.
Ciro raggelò dal muso alla coda.
Riprese a correre.
Il gigante mugghiava alle sue spalle, come un temporale che ribolliva prima della pioggia.
Con la coda dell’occhio, Ciro vedeva le sue zampe rotonde con quell’unico artiglio sporgente.
L’immagine di suo fratello spiaccicato gli rizzò le piume.
Doveva aggirare l’albero appena caduto e poi cambiare direzione!
Le zampe pulsavano di fatica e i respiri si fecero piccoli e veloci.
Saltò oltre i primi rami dell’albero e si infilò tra le fronde squamose. Dall’altra parte del tronco sarebbe stato al sicuro…Un nuovo passo, vicinissimo, fece tremare la terra. Ciro cadde.
Si puntellò col muso e le zampe anteriori per tornare in piedi.
Perché tutto era così buio?
Alzò gli occhi per vedere l’altra zampa scendere verso di lui.
L’istinto lo fece balzare all’indietro. Ciro si ritrovò sotto l’enorme ventre del gigante, così largo che avrebbe potuto contenere un albero. La consapevolezza di essere così piccolo per un attimo soverchiò il pulcino.
La zampa posteriore del gigante si sollevò a pochi passi da Ciro. Mille aculei gelati gli attraversarono le zampe, ordinandogli di correre.
Si infilò nel fitto della chioma dell’albero e sgusciò tra i rami fino all’altro lato del fusto.
Trovò un punto abbastanza riparato alla base di un ramo dove poter prendere fiato. Cercò di rallentare il respiro, ma il suo corpo non lo ascoltava. Aveva fame d’aria e le zampe erano ancora in tensione, pronte a correre di nuovo.Ciro sbirciò tra le lunghe fronde, simili a dita, rivestite da foglioline squamose: la testa del gigante svettava sopra le chiome degli alberi, ma si stava allontanando e alla fine scomparve dietro l’orizzonte. Dopo cinque respiri, l’eco dei suoi passi si perse nel terreno.Le zampe di Ciro divennero sabbia bagnata e il cucciolo crollò a terra. Anche tenere gli occhi aperti di colpo era faticoso. Si accucciò meglio nell’incavo del ramo e sprofondò nel sonno.

Goccioloni di pioggia scoppiettavano sulle foglie cerate. La foresta era avvolta dal petricore, che annacquava l’odore della resina.Per un momento, Ciro si chiese come fosse finito tra le fronde di un albero caduto. Ma poi vide la grande impronta colma d’acqua a pochi passi da lui.La paura prese a mordicchiargli le viscere e si rintanò meglio nel suo rifugio. Era stato stupido seguire le tracce. Non lo avrebbe fatto mai più. Anzi, non sarebbe mai più uscito allo scoperto se non per il tempo strettamente necessario. Gli serviva un uovo. O meglio, un rifugio che lo facesse sentire al sicuro dal mondo esterno.Passato il temporale raggiunse la pozza più vicina per bere, ma evitò le impronte del gigante e la loro acqua. Solo guardarle lo faceva sentire schiacciato.Più volte immaginò di sentire quei passi tonanti, ma appena si fermava il terreno tornava immobile. Era il suo corpo a rabbrividire, come a ricordargli di rimanere vigile e non stare troppo tempo allo scoperto.Trovare cibo però divenne sempre più difficile e un giorno la fame trascinò Ciro lontano dal suo rifugio.I raggi del sole tagliavano di sbieco le chiome degli alberi. Dai loro amenti bulbosi arrivava un odore zuccherino che accarezzava le narici. Ciro trasse due profondi respiri per annusare meglio e i muscoli si sciolsero.Il cucciolo trovò persino uno specchio d’acqua in cui pescare. Addentò un pesce morbido di grasso e lo ingoiò in due bocconi.
Aveva ancora fame, ma l’ansia formicolò sotto le piume. Doveva tornare al suo rifugio.
E c’era qualcosa di strano in quella pozza. Bere l’acqua non dissetava. Anzi Ciro sentiva l’amaro bruciargli il retro della bocca. E cos’era quella poltiglia verde che galleggiava qualche falcata a largo?Ciro fece qualche passo lungo la riva.Da dietro gli alberi arrivava lo sciabordio della grande pozza salata, che faceva avanti e indietro sulla spiaggia. Era acqua viva, pulsante, mentre quella pozza lì stava troppo ferma.La lingua di Ciro grattò contro il palato. Il sapore amaro dell’acqua gli fece venire in mente il corpo di suo fratello, l’immagine della morte.
Quella era acqua morta, rimasta a stagnare.
Solo i morti stavano fermi a lungo, mentre i vivi erano sempre in corsa.Quella consapevolezza piovve addosso a Ciro. Quanti giorni era rimasto, fermo, rintanato sotto l’albero?Un’onda nel terreno gli solleticò le piante dei piedi. Piccole increspature attraversarono la pozza amara fino alla riva opposta.Altri passi di gigante echeggiarono sotto le zampe di Ciro. Venivano da molto lontano, ma tanto bastava a fargli rizzare le piume. L’ansia divenne paura e i muscoli del piccolo dinosauro si tesero.La vita era correre, verso il cibo, via dalla morte. E per quanto Ciro desiderasse tornare a nascondersi sotto le fronde dell’albero caduto, si rese anche conto di non poter vivere per sempre in un rifugio.Doveva affrontare il mondo fuori dall’uovo o sarebbe diventato come quella pozza d’acqua: putrido e inattivo.Il gigante però non veniva verso di lui. Era solo di passaggio, poco lontano dalla pozza.Ciro tornò dunque alla pesca e prese un pesce ancora più paffuto.
Tornò al suo rifugio con la pancia piena e zampe e orecchie in ascolto. Sulla sua testa le foglie stormivano dolcemente, nel terreno i passi del gigante gli accarezzavano le squame.
La mattina dopo Ciro seguì di nuovo la pista. Molte orme erano già state ripulite dai loro preziosi bocconcini molli, ma dopo un po’, Ciro scorse un guizzo di squame verdi.Avanzò a passi felpati.
L’odore di sangue rappreso nell’aria lo eccitò.
Una piccola lucertola zampettò fuori da un’impronta. Corse verso la successiva. Ciro le si lanciò dietro a fauci già schiuse.La schiacciò con una zampa e le morse la testa, torcendola.
Quella nuova vittoria, la sua prima caccia a terra, gli accese dentro una gioia febbrile. Voleva cacciare ancora!
La pista del gigante, tuttavia, non portò altre prede così divertenti. In compenso trovò il torso di un’altra lucertola, riverso al centro di un’orma.Era praticamente un invito a divorarla.
Ciro dovette aprire la bocca più che poté per farla andare giù.
Non aveva mai mangiato così tanto. E la giornata non era nemmeno finita!
Uscì dall’impronta con la pancia che sembrava scoppiare e una goccia d’acqua gli cadde sul naso. Nel tempo di tre respiri, una pioggerellina fitta avvolse la foresta con un velo grigio.Ciro dette una scrollata e sbuffò. Lo infastidiva avere le piume zuppe.
Andò a ripararsi sotto le foglie pinnate di una felce e si accovacciò sul terreno molle. Magari avrebbe potuto schiacciare un pisolino…
Un tremito gli squassò la pancia e le piante dei piedi. Tutta la terra rabbrividì sotto di lui.Le piume umide di Ciro si drizzarono. I passi del gigante venivano proprio nella sua direzione. Ma le vibrazioni sembravano di più. Non erano i passi di un solo gigante.Quel tremito sotto la pancia si fece sempre più forte e Ciro ebbe voglia di vomitare.Si rannicchiò ancora di più nel suo rifugio e serrò le palpebre come fosse ancora nel suo uovo, al sicuro. Ma che rifugio poteva essere quella pianta, contro la mole di un animale del genere?L’avrebbe schiacciata senza nemmeno accorgersene e Ciro con essa.Uno prurito caldo gli pizzicò i muscoli delle zampe. Ciro si alzò e corse dentro alla coltre di pioggia.
I suoi piedi sciaguattarono nel fango sempre più liquido. Rivoletti e pozze d’acqua si raccoglievano nelle impronte e nelle incisioni del terreno. La pioggia però non si placava e un vento freddo prese a schiaffeggiare le fronde degli alberi.
I passi dietro Ciro non si placavano, anzi divennero sempre di più. Ondate di vibrazioni gli investivano le zampe con sempre più forza. Gli echi nel terreno poi si mischiavano tra di loro senza che il cucciolo avesse il tempo di capire da quale parte stessero arrivando i giganti.Ma poteva farcela. Doveva solo cambiare direzione ancora e ancora, finché l’eco non fosse diminuito.I giganti però sembravano avanzare l’uno accanto all’altro. In una linea troppo larga per poter essere aggirata. Da qualsiasi parte Ciro svoltasse, la terra tremava sotto di lui come sul punto di spaccarsi.I brontolii dei giganti gli rimbombarono nelle orecchie.
Il terrore azzannò le viscere di Ciro.
Una zampa affondò nel fango. Per poco non cadde a terra. Si riebbe e corse con ancora più foga.
L’acqua annegava tutti gli odori della foresta e lui non riconosceva gli alberi attorno a sé. Stava andando verso la grande pozza salata? Verso la pozza morta?Sapeva solo di dover correre. Correre via dai giganti. Correre sul velo d’acqua sempre più spesso che gli solleticava le caviglie.
Non riusciva però a seminare i giganti.
Girò leggermente il muso verso l’alto e vide tre colli lunghissimi, simili ad alberi che ondeggiavano. Sulla cima, tre testoline sembravano guardare proprio verso di lui.Ciro si sentì schiacciare tra due fauci invisibili.Una zampa affondò nell’acqua fredda e lui cadde con tutto il corpo in un piccolo fiume. La corrente lo colpì al petto e Ciro rotolò tra il fango e le foglie. Non capì più dove fossero il sopra e il sotto.L’acqua bruciò nella gola e dentro al petto. Ciro riconobbe il sapore amaro della pozza morta e poi tossì fuori un rivolo di bolle.Si lasciò affondare, accoccolato su sé stesso come dentro al suo uovo. Attorno a lui fluttuavano granellini bianchi.


A te, fra 80 milioni di anni

"Non cercavo in realtà dinosauri. Cercavo affioramenti di calcare che comprovassero l'ipotesi di una faglia. Mi sono ritrovata di fronte la mano di Antonio."Tiziana Brazzatti


Prima che tu te lo chieda, la risposta è: sì, sei morto. E anche sepolto. Il tuo corpo è immerso in una lastra di calcare granuloso da cui sporge soltanto un lato delle tue ossa scure. È ancora tutto al suo posto, dal becco affilato fino alla punta dritta della coda. I tuoi possenti quarti posteriori sono ripiegati sotto al corpo, come se fossi sul punto di balzare via.Sei lì da circa 80 milioni di anni. Lo dicono i mammiferi su due zampe che ti hanno estratto da sotto le montagne. All’epoca in cui sei vissuto, i loro antenati erano dei topastri che puzzavano di carogna e vivevano negli anfratti tra le rocce. 80 milioni di anni fa nessun essere con le squame prestava loro molta attenzione. Ma adesso i Grandi Squamati sono quasi tutti morti e intrappolati nella pietra, come te, e il mondo appartiene a quei ratti spelati.Sono esseri molto curiosi, specializzati nel collezionare cose: piante, sassi, animali vivi e morti. A ognuno danno un nome – anzi spesso più di uno – per distinguerli tutti e parlarne con altri topastri.Ovviamente anche tu hai dei nomi, uno che designa tutta la tua razza e un altro solo tuo. Il primo, quello con cui ti presentano ai topastri più importanti del gruppo, è Tethyshadros insularis. Il secondo è Antonio, come uno di quelli che hanno estratto il tuo scheletro.Ma per questi mammiferi tu non sei solo uno scheletro. Sei un fossile, un relitto di un passato remoto che è stato decomposto e seppellito nel terreno. E loro amano particolarmente collezionare fossili. I più belli li raccolgono in grandi tane costruite appositamente.Topastri da ogni dove vengono a visitarle per vedere questi fossili e conoscere i loro nomi. Queste tane si chiamano musei. Ed è proprio lì che ti trovi.Quindi, ricapitolando: i discendenti dei ratti dominano il mondo e sono affascinati dalle tue ossa; chiamano Tethyshadros insularis tutta la tua razza; il tuo nome invece è Antonio e ti trovi in una tana speciale chiamata museo, dove sei ammirato da tutti.Questo è il mondo come è adesso, 80 milioni di anni dopo la tua morte.
Com’era invece prima, quando eri vivo?
Se tu avessi ancora degli occhi da chiudere, potresti vedere davanti a te la foresta e le montagne della tua isola. Ti ricordi il verde lucido degli alberi e il tepore del sole che filtra dalle loro fronde. Con un po’ di fatica, ricordi anche tutto il viaggio della grande migrazione.***Ora sei di nuovo nella valle di cova, dove hai vissuto per il tuo primo anno. È un luogo simile a un gigantesco nido scavato in mezzo alle montagne. I crostoni di terra rossa sui loro pendii le fanno assomigliare a giganteschi Tethyshadros assopiti, con i dorsi ammantati di alberi.L’aria umida ti si appiccica alle squame color sangue rappreso. Nella valle piove spesso, ma l’acqua è difficile da trovare: il terreno se la beve tutta dal giorno alla notte, attraverso cunicoli e inghiottitoi in cui una volta sei quasi scivolato. La curiosità e il gorgoglio dell’acqua nel sottosuolo ti avevano spinto fin sul precipizio di quella gola buia e una tua zampa anteriore ha slittato in avanti sulla roccia. Ti sei sentito risucchiare in quel budello. Hai puntellato i quarti posteriori per recuperare aderenza e ti sei tirato indietro.Sei fuggito di corsa e da allora hai imparato a succhiare l’acqua dai muschi e bere solo dalle pozze frequentate da quelli più grandi del tuo branco.Nel tuo primo anno cresci molto: la tua spalla adesso arriva fino a metà dell’altezza degli anziani del branco. Se da cucciolo ti avevano ignorato, adesso che sei grande non ti vogliono attorno, soprattutto i maschi.Mugghiano rabbiosi e muovono la coda in avvertimento se stai a meno di cinque passi di distanza e alle abbeverate devi sempre cedere loro il posto.
Alla fine, a te resta solo un’acqua torbida dal sapore amaro che però sei costretto a bere fino in fondo. Non c’è niente di peggio della sete che ti brucia la gola.
Un giorno avverti una strana inquietudine. È come se qualcosa si agitasse nella tua pancia, strizzandoti le viscere. Hai voglia di camminare molto, ma ti devi trattenere o consumerai tutta la preziosa acqua che hai bevuto.Diventi anche più rissoso e un paio di volte brontoli in risposta a un altro maschio, che avrà al massimo due anni più di te. Anche lui, 80 milioni di anni dopo, sarà esibito nel museo dei topastri e il suo nome sarà Bruno.Lui non gradisce molto la tua insolenza e in risposta ti spintona e ti sferza i fianchi con la coda.
Non è un anziano, quindi ricambi volentieri. Hai un’energia nuova che ti ribolle nel petto e non sai come altro sfogarla.
Bruno incassa le codate, ma poi s’impenna e ricade con due zampe contro il tuo fianco. Ti morde il muso e per scrollartelo di dosso perdi l’equilibrio.Cadi con il suo peso addosso. Tenti un paio di volte di rialzarti ma poi ammetti la sconfitta con un mugolio sommesso.Bruno toglie le zampe e se ne va senza voltarsi. Non ti considera una minaccia, forse al massimo una seccatura.Quel pensiero ti fa bruciare di indignazione. Allo stesso tempo, però, ammiri Bruno e vorresti essere come lui.Il giorno dopo, gli anziani emettono dei muggii lamentosi per annunciare l’inizio della migrazione e tu fai in modo di stare il più vicino possibile al tuo rivale.***Gli anziani marciano alla testa del gruppo mentre tu sei vicino alla coda del gruppo, imprigionato in una bolla di individui con più migrazioni alle spalle. Un passo alla volta sgusci verso l’esterno della formazione, dove stanno Bruno e gli altri maschi che non hanno bisogno di protezione.La terra rossa e polverosa ti accarezza le zampe, piacevolmente tiepida come il nido in cui ti sei schiuso. La stessa terra ti accompagna su per le montagne, ma pian piano inizia a cedere il posto a un’altra più grigia e piena di spigoli. La pendenza del terreno aumenta e compaiono gradoni di roccia alti quanto te. Il branco deve arrampicarsi.Guardi Bruno. Lui tasta il terreno con i quarti anteriori fino a trovare un appiglio solido, poi si spinge con quelli posteriori. È il più agile tra i giovani maschi e non scivola neanche una volta.Vuoi essere al suo pari, così posi le zampe esattamente dove le ha messe lui e quando sollevi la testa al livello di sopra, incroci i suoi occhi dorati.Fingi interesse per delle felci ai margini del sentiero e Bruno sbuffa. Ha di nuovo quello sguardo di sufficienza, come se tu fossi un cucciolo fastidioso.Ingoi la rabbia e rimani qualche passo dietro di lui, ma sempre abbastanza vicino da poterlo seguire e copiare i suoi movimenti.
A fine giornata i muscoli ti pulsano per la fatica ma scalare adesso ti viene facilissimo. Il branco ha raggiunto la sua prima sosta: una vallecola incisa nella montagna, tra pareti quasi verticali di roccia nuda.
Le piante però non mancano e ti getti sul primo cespo di felci libero. Il tuo becco taglia le fronde piumose e persino i circinni non ancora dispiegati. Il loro sapore dolce sulla lingua ti sembra la cosa più buona del mondo.Anche altri giovani del gruppo si mettono a brucare con foga, ma Bruno e molti altri si dirigono all’imboccatura di una caverna in fondo alla valle.Ingoi le ultime foglie e affretti il passo per seguirli. È un inghiottitoio molto più grande di quello in cui sei quasi caduto, dai contorni morbidi di muschio.Dentro c’è tutta l’acqua mai caduta dal cielo: un intero fiume scorre, gorgoglia e scroscia tra cascatelle bianche di spuma. La pietra sotto le tue zampe è levigata dal suo passaggio e metà del branco è raccolto lungo le sponde e nelle polle più tranquille ai lati.Ti trovi un posto e bevi, bevi fino a scoppiare. Perché gli anziani non vi hanno mai portati in questo posto? Perché il branco non vive qui?Gironzoli un po’ per quella caverna delle meraviglie e segui un ramo più piccolo del fiume. Porta a una pozza più larga, sul ciglio di una cascata, dove Bruno e altri maschi sono accucciati a sonnecchiare.Sembra una cosa piacevole, per cui entri in acqua anche tu. Lo sciaguatto delle tue zampe però spezza la quiete e le occhiatacce dei giovani maschi ti trapassano da parte a parte.Bruno si alza con un brontolio rabbioso. Si è stancato di averti intorno.Tu però non vuoi andartene. Anzi sei pronto a prenderti la tua rivincita pur di farti un bagno, dopo una giornata così faticosa.Sfalsi le zampe. Un formicolio elettrico ti attraversa i muscoli. Bruno ti carica. Scarti di lato ed eviti per un soffio una sferzata di coda. Gli graffi uno dei suoi quarti posteriori col tuo becco e lui prova di nuovo a impennarsi. Stavolta colpisci con la coda alla sua pancia e lui ricade sulle quattro zampe, a due passi dal bordo della cascata.
Magari gli basterà così. Sarà stanco anche lui…
Invece ti colpisce il muso col suo becco. Sulla tua guancia si apre un taglio sanguinolento. Incassi un paio di codate e poi tu e Bruno vi abbrancate a mezz’aria, in piedi sulle zampe posteriori. Girate e beccate nel tentativo di far cadere l’altro.Bruno però pesa troppo e scivoli all’indietro col tuo rivale ancora addosso. Sotto di voi non c’è niente. Cinque respiri di vuoto e poi l’acqua ti sferza un fianco e sei costretto a nuotare.Accanto a te, Bruno raggiunge la sponda del fiume e cerca un punto per risalire il gradone della cascata. La roccia però è troppo liscia e le sue zampe scivolano senza appiglio. Siete bloccati là sotto.

***
Il branco non vi aspetta. Dall’alto della cascata, i compagni di Bruno vi guardano con aria vagamente dispiaciuta. Al richiamo degli anziani però si rimettono subito in marcia.
Tu e il tuo rivale mugghiate e bruite fino a sgolarvi, ma vi risponde solo il vostro eco. Più il tempo passa e più odi quelle pareti chiare e liscissime. Odi persino il mormorio liquido del fiume. Rivuoi la terra rossa e arida del mondo esterno.Deve pur esserci un’uscita! Quel fiume dovrà pur sfociare da qualche parte…Cerchi Bruno con lo sguardo: sta fissando la gola buia davanti a voi e probabilmente pensa le tue stesse cose. La luce è già molto debole e presto sarete avvolti da quel nero assoluto, privo di odori e sapori.Fai per metterti al fianco del tuo simile, ma lui ti scocca un’occhiata carica d’odio. Il taglio sulla tua guancia brucia. È colpa tua se siete caduti e Bruno ti lascerebbe volentieri qui a marcire. Ma nemmeno lui se la sente di affrontare quel buio da solo.Gli stai dietro, all’altezza dei quarti posteriori, e iniziate a seguire il fiume.Il corso è abbastanza tranquillo. Sulla pietra sono impresse piccole onde smussate parallele al fiume, come una traccia fatta a posta per voi. Gli scrosci dell’acqua vi segnalano con anticipo dei gradoni di roccia da cui dovete scendere a tentoni. Prendete un sacco di storte, ma senza mai rompervi niente.Dopo quella che sembra un’eternità, dal fondo della galleria arriva una luce pallida come la luna. Vi lanciate al galoppo. Finalmente l’uscita!Il fiume sbuca in un tappeto muschioso su cui si innalzano due alberi rachitici. Siete in una prateria sotterranea e le pareti si avvolgono attorno a voi verso l’alto, a mostrare solo un oculo di cielo nebbioso.Siete troppo stanchi per proseguire ancora. Brucate le piantine che crescono sul fondo di quel buco. Sono così amare da bruciarti la lingua, ma continui a ingoiarne più che puoi. Vuoi uscire a tutti i costi e ti servono le forze.Dall’altro capo del fiume, però, arriva una brezza acre. L’odore di sangue e carne marcia ti artiglia le narici. Le viscere ti affondano nella pancia come se avessi mangiato sassi. Tutto il tuo corpo sa cosa significa quel tanfo. È l’odore di chi mangia quelli come te.Anche Bruno lo sente. Sfalsa le zampe per prepararsi a un attacco.
Respiri il meno possibile. Il tempo si ferma.
Il mangiatore sta più avanti lungo il corso del fiume. Se lui è riuscito a entrare lì dentro, significa che si può anche uscire…Le zampe ti formicolano. Devi riprendere la migrazione. Il tuo corpo te lo ordina sempre più forte, allo stesso modo in cui ti ordina di mangiare e di bere.Non puoi comunque tornare indietro e sei stufo di attendere il tuo nemico sul fondo di quel budello. Affianchi Bruno, spalla a spalla, e aspetti che sia lui a partire. Vi guardate un istante ed è come se vi scambiaste un giuramento.Riprendete il corso del fiume. Il buio di questa nuova grotta è meno denso e riuscite a scorgere i contorni di grossi denti di roccia aguzza che sporgono dal terreno e pendono dal soffitto.È come essere tra le fauci di un enorme animale, pronte a chiudersi su di voi da un momento all’altro.La luce diventa sempre più forte, così come l’odore di carne. Alla fine del fiume, una sagoma nera su due zampe si staglia contro il verde della foresta all’esterno.Solleva il grugno tozzo per annusare l’aria e poi lo punta verso di voi con un ruglio famelico. Il torso, proteso in avanti, sembra non avere zampe anteriori e la coda è rigida come un tronco. Avanza verso di voi con le fauci dischiuse a mostrarvi i denti lucidi di bava.
Sta decidendo chi azzannare.
Bruno ti dà una spallata violenta. Caracolli tre passi avanti. Il fiato del mangiatore ti investe e fissi il fondo nero della sua bocca.Una coda robusta ti passa davanti e colpisce la gola del carnivoro. Lui arretra con un respiro fischiante.Bruno è di nuovo al tuo fianco e bruisce dal profondo della pancia verso il mangiatore.È il tuo turno per colpire.Ti lanci alla carica. Scarti di lato per evitare un morso e becchi il fianco del tuo nemico, incidendogli un paio di graffi.Lui si sposta con un soffio indignato, ma Bruno lo sferza ancora e ancora con la coda. Il carnivoro si getta su di lui. I suoi denti si serrano a incastro sulla coda del tuo amico. Bruno grida di dolore e scivola a terra. Il tanfo del sangue ti soffoca.Hai la via libera e il mangiatore ha trovato la sua preda. Potresti scappare… Ma abbandoneresti Bruno. E tu non sei così codardo.Vedi che il tuo nemico ha delle zampe anteriori ridicole, corte e grassocce, che tiene schiacciate ai fianchi. Ne addenti una con foga e lo fai stridere di dolore. Balzi indietro appena in tempo per evitare un morso. Bruno si rialza e torna a colpire. Il carnivoro arretra.La luce del giorno vi pungola gli occhi, ma ora vedete bene il vostro nemico. Ha le squame raggrinzite piene di segni sbiaditi e dalla bocca mancano dei denti. È vecchio, mentre voi siete giovani e scattanti.Si impenna sui quarti posteriori e ruglia ancora, nel tentativo di salvare un po’ del suo orgoglio. Voi però rugliate più forte e un passo dopo l’altro lo fate spostare di lato, di nuovo tra le ombre della caverna.I suoi passi e l’odore di carne si perdono nell’oscurità. Il fiume sotterraneo è il suo dominio e lui può sempre attendere che qualche altro Tethyshadros più malandato di voi gli cada tra le fauci. Forse, tra 80 milioni di anni, i topastri troveranno anche le sue ossa.Tu e Bruno invece imboccate il sentiero che si inerpica sulla montagna. Un formicolio eccitato ti attraversa la pelle a ondate, man mano che realizzi cosa è successo.Hai fatto indietreggiare un carnivoro! Hai visto la morte dietro ai suoi denti aguzzi, ma poi hai lottato come non avresti mai sognato di fare. E quando gli hai morso quelle zampette inutili? Nessun tuo coetaneo sarebbe stato in grado di farlo!Tutto il tuo corpo ti sembra più grande e più forte, come quello di Bruno. Lui ti lascia camminare al suo fianco, da pari a pari, e ti guida verso gli altipiani dove si stanno radunando i branchi. Ogni tanto ti guarda con la coda dell’occhio, come per accertarsi che tu sia sempre lì a coprirgli le spalle. Non lo abbandoni neanche per un passo, fino all’altopiano di accoppiamento.***È un luogo completamente diverso dalla tua valle di cova: la vegetazione cespugliosa lascia scoperta tutta la volta celeste, in cui galleggiano batuffoli di nuvole.La roccia cade a picco verso il basso e puoi vedere la valle in cui ti sei schiuso. Sembra così piccola da lassù.Dietro le foreste e le montagne, però, c’è un’immensa distesa azzurra che sfuma con il cielo all’orizzonte. Il vento frizzante dell’altopiano porta un odore di sale e capisci che viene da laggiù.Quello è il mare a cui i topastri del futuro si ispireranno per dare un nome alla tua razza: la Tetide.
Cominciano i combattimenti: voi maschi vi radunate al centro dell’altopiano, mentre le femmine vi osservano accucciate tra le felci.
È il tuo primo anno, per cui non c’è storia contro i maschi più maturi e forti. Abbandoni il centro del pianoro con il becco ammaccato e le costole doloranti, ma a Bruno non va molto meglio di te: in tutti i combattimenti riesce a conquistare soltanto due femmine più o meno della sua età. I loro occhi languidi attirano diversi giovani maschi rimasti senza compagna e Bruno deve vegliare giorno e notte per tenerli lontani.Nemmeno tu riesci a resistere e passo dopo passo ti avvicini. Un sapore dolce-amaro ti si appiccica al palato. I tuoi pensieri annegano in quella fragranza irresistibile. Sei conscio solo dell’ordine impartito dalle due giovani femmine che ti guardano di sottecchi mentre brucano.Bruno è a una decina di passi di distanza. Ha i fianchi smagriti dopo giorni e giorni di lotta. Finge di non vederti mentre ti accoppi con una sua femmina e la cosa si ripete anche nei giorni successivi, fino alla fine della stagione.***Non vedrai una seconda migrazione. Un’alluvione trascinerà te, Bruno e molti altri nei fiumi sotterranei. Annegherete, ma nessun carnivoro troverà i vostri corpi.Per fortuna, tu e Bruno siete riusciti a perpetrarvi: i vostri figli continueranno a prosperare e a migrare sugli altopiani, tra le isole della Tetide. Sotto le loro zampe, le terre emerse si rimescoleranno, un milione di anni alla volta, e il mare che conosci si chiuderà. La tua tomba di calcare sarà innalzata nella formazione di una catena montuosa che i topastri del futuro chiameranno Alpi.Ti hanno ritrovato lì, hanno letto la tua storia nelle ossa e adesso una di loro l’ha raccontata ancora una volta, affinché tu e i cuccioli estasiati in visita al museo non la dimentichiate.80 milioni di anni dopo le tue avventure, io e gli altri topastri raccogliamo le storie del tuo mondo.


Cercando Esperia

Tutto il mondo sarà tuo nemico, principe dai mille nemici, e se ti prenderanno ti uccideranno. Però, prima dovranno prenderti.
Richard Adams – La collina dei conigli


Un brivido caldo di eccitazione discese lungo tutto il collo di Tito fino alle spalle. Le zampe pestarono la sabbia umidiccia nel punto in cui avrebbe dovuto emergere il sentiero di sabbia.Ormai era quasi l’ora.
Il mare davanti a lui era una pianura nera solcata da piccole onde. Sembrava di poterci camminare sopra. Era così che ingannava gli stolti e i cuccioli: si fingeva tranquillo per poi montare con l’alta marea e inghiottire qualsiasi cosa. In un giorno e una notte potevano scomparire intere isole.
Tito alzò gli occhi verso il cielo e girò la testa fino a incontrare lo sguardo placido del grande Occhio Bianco. Era finalmente sbucato da dietro le fronde, completamente aperto, e saliva sempre più in alto tra le piccole luci nel cielo.Nel mare si accesero una miriade di puntini bianchissimi e vampe fosforescenti, che sfarfallavano tra i rivoli di schiuma. Le onde presero a mormorare sulla sabbia, sempre più forte man mano che il sentiero emergeva: un’unica linea di buio incisa nell’acqua brillante.La luce pallida dell’Occhio Celeste accarezzò le squame di Tito dal collo alla coda e con quella benedizione il giovane dinosauro si mise in marcia. Non aveva molto tempo prima che il sentiero affondasse di nuovo, insieme all’isola che si stava lasciando alle spalle.Il mare ingoiava qualsiasi cosa avesse tra le onde. Consumava carne, legno e foglie per risputare solo sabbia nuda, secondo i ritmi stabiliti dal Cielo. Ma quella era una sera propizia, perché l’Occhio Bianco era completamente spalancato e Tito poteva raggiungere una nuova terra dall’altra parte del sentiero forse persino Esperia, l’isola che non affondava mai.Il giovane dinosauro si dette una scrollata. A sognarle troppo, le cose belle come Esperia non diventavano mai realtà.Affrettò il passo, le zampe che affondavano nella sabbia molle.
L’Occhio Bianco cominciò la sua discesa verso il mare. Dal lato opposto invece lingue di luce fendettero il cielo buio, ad annunciare l’Occhio di Fuoco.
Il tepore dell’alba dette nuovo vigore ai muscoli di Tito. Vedeva finalmente la sagoma nera e allungata della nuova isola. Non mancava molto. Dopo qualche passo, però, gli spruzzi delle onde presero a solleticargli le caviglie.Stava già cominciando l’alta marea.
Tito alzò di nuovo gli occhi e supplicò i due Occhi del cielo. Gli serviva solo un altro po’ di tempo!
Non avrebbe dovuto pensare a Esperia. Si sarebbe accontentato di un’isola qualsiasi. Mancava così poco alla fine del sentiero…
Un getto di vapore bucò la superficie blu del mare. Una sagoma nera e sinuosa nuotò sotto la superficie, a una decina di passi dal sentiero, dove l’acqua era più alta. Era grande quasi il doppio di Tito. Il muso lungo e sottile era diviso da una fila di denti ricurvi.Crampi di paura strizzarono le viscere del giovane dinosauro. A ogni passo le zampe affondavano sempre di più nella sabbia imbevuta d’acqua, come a trascinarlo tra le fauci del predatore marino. Un’onda dopo l’altra, la marea addentava la poca sabbia emersa e il predatore frustava l’acqua con la coda per avvicinarsi.L’isola era vicinissima. Tito poteva sentire l’odore dolciastro dei frutti appena caduti. Ma erano comunque troppi pass e il mare saliva troppo velocemente per lui. Avrebbe dovuto nuotare almeno per un tratto, nella speranza di non essere azzannato prima.L’Occhio di Fuoco era sempre più alto nel cielo terso. Il suo sguardo accecante faceva scottare le squame di Tito. Era una maledizione o una grazia?Il carnivoro marino frustò l’acqua con la coda e partì alla carica, ma si arenò nell’acqua bassa. A meno di tre passi da Tito.Soffiò due pennacchi vaporosi e sbatacchiò le pinne fino a disincagliarsi. Nei suoi occhi verdi si leggeva l’eccitazione della caccia.Tito si costrinse a marciare ancora più veloce, in una corsa fatta da passetti rapidi. Vedeva il manto di alghe secche sulla battigia dell’isola. Il mare gli avvolse le caviglie e poi i ginocchi, fino a lambirgli il ventre. Ogni passo divenne sempre più faticoso.Il rombo famelico del carnivoro fece ribollire l’acqua.Non poteva più aspettare.Un ultimo passo e Tito prese a scalciare nell’acqua con tutta la forza che aveva. Tese il collo verso l’alto per mantenere la testa fuori dall’acqua. Mosse la coda in alto e in basso per darsi un po’ più di spinta.L’acqua ribollì di nuovo contro le sue squame. Aculei di paura gelida gli punsero il collo.Il carnivoro lo avrebbe morso lì. Da un momento all’altro. Sarebbe piombato su di lui e gli avrebbe azzannato la gola che Tito teneva così in bella mostra.Un’onda montò alle sue spalle. La schiuma scrosciò giù dalla cresta.
Tito scalciò più forte e la sua zampa anteriore sbatté su qualcosa.
Un manto d’acqua gli sommerse la testa. Il sale gli bruciò le narici.
Il giovane dinosauro riemerse con un respiro ansante. Le zampe poggiavano su un crostone di roccia levigata e l’acqua gli arrivava ai ginocchi.
Più a largo, il predatore marino galleggiava semi-sommerso col muso puntato verso la sua preda.
Tito lo immaginò digrignare i denti per la rabbia. C’era mancato pochissimo…
Nel tempo di tre respiri la paura scivolò via dal suo corpo. L’Occhio di Fuoco lo avvolse con i suoi raggi tiepidi, asciugandogli le squame azzurre come il mare basso. I muscoli di Tito si sciolsero poco a poco e una volta sulla terra ferma ingoiò un sasso per rendere grazie all’isola della sua fortuna.***Tutto il mondo si reggeva sul dorso della Grande Madre, il cui collo era così lungo da arrivare fino al cielo e brucare le nubi più alte. Da lassù vegliava sui suoi figli, di giorno col suo occhio più vigile e caloroso, di notte con quello più stanco che si apriva e si chiudeva. Prima del Diluvio, terre rigogliose si estendevano dalle spalle della Grande Madre fino alla punta della coda. Adesso invece solo poche delle sue spine emergevano dalle acque. L’unica eccezione era l’isola della speranza, che sorgeva all’altezza della terza vertebra lombare. Sotto di essa era custodita la seconda mente della Grande Madre e tutti i suoi figli avrebbero potuto udirne la voce.Ogni isola era dunque un pezzo della Madre stessa e ogni volta che Tito ne ingoiava un frammento, un sasso, sperava di sentire il suo barrito gentile che gli annunciava di essere arrivato a Esperia.La nuova isola rimase silenziosa, ma gli offrì piante dalle foglie turgide d’acqua. Dalle fronde più alte arrivava un odore molto dolce e familiare. Tito si alzò sulle zampe posteriori e poggiò la coda a terra per sostenersi meglio. Puntellò le zampe anteriori sul fusto e alzò il collo fino a raggiungere i semi: penzolavano a coppie dai rami, avvolti in una polpa gialla e così morbida da sciogliersi sulla lingua.Era un po’ che Tito non trovava quelle leccornie! Specie se aveva altri suoi simili intorno…Con un ramo ancora in bocca si accorse d’improvviso del silenzio che regnava sull’isola. A quell’ora gli abitanti avrebbero già dovuto accorgersi del suo arrivo. Perché non sentiva i classici barriti di saluto?Tornò sulle quattro zampe e batté un colpo di coda a terra. La sua stessa vibrazione gli solleticò le zampe senza però ricevere risposta. Non gli era mai successo. Per di più su un’isola rigogliosa come quella.Si addentrò nel verde della foresta. Ogni tanto si fermava e dava un altro colpo sul terreno per segnalare la propria presenza. Il terreno però rimase inerte. Poteva davvero essere solo in mezzo a tutto quel cibo?Verso il tramonto finalmente trovò una pista: un sentiero di alberi caduti e fronde schiacciate, alla maniera dei suoi simili, che lasciava uno spazio vuoto largo tre passi in mezzo alla foresta. Nelle impronte ancora visibili stavano già crescendo delle piantine e la muffa imbiancava i cumuli di escrementi: l’Occhio di Fuoco doveva essere sorto almeno quattro volte.Tito seguì ugualmente la pista. Forse avrebbe trovato l’imboccatura per un altro sentiero di sabbia.L’odore salato del mare però si fece sempre più debole e sul sentiero iniziarono a comparire sassi bianchissimi, alcuni levigati altri con i bordi scheggiati come se qualcosa li avesse spezzati di netto. Cominciarono a comparire a gruppi sempre più numerosi e allineati in piccole serpentine.L’odore di putrefazione impastò le narici di Tito. Le sue zampe si irrigidirono e un brutto presentimento gli formicolò su tutto il collo.Il giovane dinosauro alzò lo sguardo verso la fine della pista, invasa dai sassi bianchi. Due di loro avevano la forma della sua testa e lo fissavano dalle orbite cave.Un gorgoglio cupo echeggiò nella foresta. Fauci invisibili stritolarono il collo di Tito.Era verso di un cacciatore, famelico ed eccitato per una nuova preda. Una preda così gentile da segnalare la sua posizione a colpi di coda.Tito raggelò fin nelle ossa e corse via. Zigzagò di nuovo verso la spiaggia. Doveva confondere le sue tracce e disperdere l’eco dei suoi passi. Perché non sentiva quelli del cacciatore attraverso il terreno?La sua voce lugubre gli rimbombava nelle orecchie. Era come averlo vicino, sentire il suo fiato umido appiccicarsi alle squame, a un respiro dalla morte.
Vengo a prenderti, gli diceva.
Il mare si spalancò davanti a Tito. L’Occhio di Fuoco faceva risplendere l’acqua di un azzurro abbagliante.Il giovane dinosauro socchiuse gli occhi ed entrò con le quattro zampe in acqua. Fissò la foresta con i muscoli che pulsavano di paura. Da un momento all’altro il cacciatore sarebbe corso fuori a zanne snudate. E stavolta non c’erano sentieri di sabbia o l’Occhio Benevolo della notte a proteggerlo…La Grande Madre lo stava fissando col suo sguardo più inclemente. Lo stesso che però irradiava calore e dava vigore a tutti i suoi muscoli.Il momento del giudizio però non venne. Il gorgoglio del carnivoro si spense e tornò il silenzio stantio della mattina. Non si sentirono nemmeno i suoi passi. Aveva perso la traccia? Non era più interessato?La presa attorno al collo di Tito si sciolse piano piano e lui fece qualche passo nell’acqua bassa. Il mare avrebbe confuso le sue tracce e magari intanto sarebbe uscito a trovare un altro sentiero di sabbia…L’Occhio di Fuoco cominciò lentamente a calare, ma il carnivoro non si fece più sentire. Nessun altro richiamo osò spezzare il silenzio dell’isola.C’erano solo Tito e il cacciatore.
Poco più a largo della spiaggia si stendevano ampie praterie sommerse, che ondeggiavano deboli a ritmo della corrente. Tito preferì il sapore bruciante di quelle piante marine a mettere di nuovo la zampa sull’isola. Brucò per un po’ vicino alla spiaggia. Le piccole dune sotto le sue zampe poi presero a innalzarsi fino a creare una collina di sabbia ampia due passi. Era l’inizio di un sentiero.
Tito ci salì. L’acqua gli arrivava poco sopra le caviglie, ma l’isola all’orizzonte era poco più di una impressione bluastra all’orizzonte. Era una traversata molto più lunga del suo solito e sicuramente gran parte del sentiero era ancora sommerso.L’Occhio Bianco si era già spalancato e c’era solo un altro momento in cui i sentieri emergevano dall’acqua…Il gorgheggio lamentoso del carnivoro gli rimbombò nella mente. Sarebbe stato già tanto sopravvivere qualche altro giorno.Avrebbe dovuto attraversare il sentiero senza la protezione della Madre, quando l’Occhio Bianco era completamente chiuso.

***
Il giorno successivo Tito ingoiò altri due sassi, uno all’alba e l’altro al tramonto, nel tentativo di addolcire lo sguardo infuocato della Grande Madre. Magari gli avrebbe concesso la sua protezione, se fosse fuggito con la marea del giorno. Il solo pensiero di camminare tra le acque, nel buio assoluto di una notte senza l’Occhio Bianco, gli prosciugava tutto il calore del corpo.
Il carnivoro rimase in silenzio per tutto il giorno e per quello dopo ancora. Tutta l’isola però aveva il suo odore. Ogni albero era stato marcato con quel tanfo di putrefazione e Tito trovò persino degli escrementi freschi, dello stesso colore del sangue rappreso.Le viscere gli si rimescolarono nella pancia e fece molta fatica a mandar giù le foglie salate che aveva in bocca.Che la Madre avesse pietà di lui.
Uno spicchio alla volta, l’Occhio Bianco si chiuse finché nel cielo rimase solo una striscia ricurva sottile come una foglia. Ogni mattina e ogni sera, Tito aveva ingoiato un sasso dell’isola per quel piccolo rituale che si era imposto. E non solo non era mai stato attaccato, ma neppure aveva mai visto il carnivoro!
Il giorno dopo avrebbe dovuto lasciare l’isola, per cui tanto valeva mangiare qualcosa di un po’ più dolce.A passi circospetti Tito uscì dall’acqua e cercò sulla spiaggia uno di quegli alberi dai semi polposi. Ebbe l’impulso di annunciarsi con un colpo di coda, ma si irrigidì. Non era così sciocco.
Mangiò fino a sfrondare un intero albero. Biascicò un po’ i semi dolci per lavare via dalla lingua il sale delle piante marine.
Da terra si levò un pigolio. No, aveva sentito male. Era solo il vento.Un altro versetto acuto. Dagli arbusti si levarono altri pigolii acuti e intermittenti.Allora c’era qualcos’altro sull’isola.
Da sotto le felci sbucò un batuffolo di piume bianche striate di nero, che si reggeva su due lunghe zampe. Trotterellò verso le orme di Tito e si mise a rovistare nella sabbia smossa. Ne vennero altri, un piccolo stormo su due zampe che saltellava dentro e fuori dalle impronte.
Erano tantissimi. Come erano sopravvissuti tutti insieme sull’isola?Tito fece un passo verso di loro e abbassò leggermente il collo. Tutti quei musetti aguzzi si girarono verso di lui, ma al secondo passo che fece, i batuffoli corsero dentro la foresta.Forse avevano un rifugio? Oppure il carnivoro era morto ed erano usciti tutti allo scoperto? In effetti era tanto tempo che Tito non sentiva i suoi richiami…Il giovane dinosauro decise che valeva la pena tentare e li seguì. Dopotutto, la Grande Madre gli rivolgeva ancora il suo sguardo benevolo, seppur con l’occhio socchiuso.Gli scriccioli piumati correvano tutti insieme, in un gruppo ordinato. Raggiunsero la pista lasciata dai simili di Tito e si addentrarono ancora nella foresta.L’odore di morte divenne sempre più forte. Ma poteva essere vecchio… E chissà in quanti erano morti lì.Gli alberi si aprirono in una radura, rischiarata dalla luce pallida del cielo. Al centro c’erano un masso e una buca, cosparsa di ossa, dove si erano acquattati i batuffoli con le zampe. Quelli riattaccarono a pigolare. Ma perché? Che avevano ora?Il masso prese a soffiare. Un occhio giallo si schiuse proprio dietro ai piccoli dinosauri.
La paura stritolò il collo di Tito.
Proprio sotto l’occhio della Madre…
Il carnivoro alzò il muso verso di lui, i denti ricurvi che sporgevano dalla mascella. Aveva le orbite infossate sotto le creste ossee e segni sbiaditi che gli attraversavano il grugno. Il corpo era tutto spigoli, con le ossa che spuntavano da sotto le squame.Si alzò gorgogliando.Tito sentì la sua fame penetrargli fin nelle ossa. Gettò un’occhiata supplichevole al cielo, ma l’ultimo spicchio bianco dell’Occhio Benevolo era coperto da un banco di nubi.Era solo.Non poteva morire così.La stretta attorno al suo collo scomparve e Tito batté la coda a terra. Intercettò la carica del predatore con i suoi quarti anteriori e lo colpì sul grugno. Quello si piegò in avanti e per poco non cadde a terra.I suoi occhi dorati brillarono di rabbia. La pagherai cara, dicevano.
Vederli dal vivo, però, anzi vedere il predatore dal vivo, faceva tutto un altro effetto. Non era più una voce lugubre alle sue spalle, ma uno scheletro con la pelle poco più grande di Tito.
Era qualcosa che poteva combattere.Tutti i muscoli sotto le squame si irrigidirono. Le zanne del carnivoro baluginarono nella luce pallida. Tito vibrò un colpo di coda. L’urto gli arrivò fino ai quarti posteriori. Il suo nemico slittò sul terreno, metà del corpo sbracato sul suo dorso.Un paio di schiocchi di fauci e poi un dolore sordo trafisse la coscia del giovane dinosauro. Dal petto gli eruppe un mugghio di agonia.Barcollò nel tentativo di ritrarsi.
Le zanne però affondarono ancora.
La carne bruciò dall’interno. Era come sentire nelle viscere lo sguardo infuocato della Madre.
Ma la Madre non era lì, né a proteggerlo né a punirlo. O comunque non lo stava guardando.
Tito allargò le zampe per sostenersi meglio. Non si sarebbe lasciato tirare giù. Scrollò con violenza tutto il corpo. Il dolore gli accecò la vista per un attimo. Ma scrollò ancora e ancora. Si sentiva spronato dallo stesso dolore.Spinse il carnivoro da un lato e dall’altro.I suoi denti persero la presa. Altre fitte laceranti. Il carnivoro caracollò all’indietro. Tito si impennò con la coscia che pulsava.Per la prima volta guardò il nemico dall’alto. Nei suoi occhi dorati ci fu un lampo di terrore. Tito gli ricadde addosso con i quarti anteriori. Lo schiacciò al suolo e le sue zampe affondarono nel suo torace con uno schiocco secco. Il sangue e le viscere gli impiastricciarono le caviglie e il carnivoro emise un ultimo gorgoglio liquido.Il silenzio avvolse la radura.
Gli scriccioli piumati erano fuggiti. Nella buca rimanevano solo segni di impronte e gusci rotti.
L’Occhio di Fuoco stava sorgendo.
Tito lasciò la carcassa del suo nemico e andò a mangiare, in attesa della bassa marea.
***La sabbia del sentiero spiccava come un nastro grigio brillante in mezzo alle onde nere del mare. Con un po’ più di luce, sarebbe stata bianca come l’Occhio Benevolo.Tito viaggiò a passo svelto fino al nuovo sorgere dell’Occhio di Fuoco. Il calore che irradiava però gli faceva formicolare le squame per il fastidio. Tutti i suoi rituali e le regole si erano rivelati inutili. Aveva affrontato un carnivoro e il viaggio attraverso il mare senza la protezione della Grande Madre. Se mai esisteva.Arrivò in un’isola piuttosto grande, i cui alberi avevano le foglie lucide di cera, e il mare inghiottì di nuovo il sentiero di sabbia.Nella foschia del primo mattino, il confine col cielo era più sfumato e le isole rimanevano nascoste. Tra di loro però non c’era Esperia.Al di là del mare c’erano solo i nemici.


I canti di Besano

"Son de sass e non me meve
Son de crepa en Marmoléda
So na fia arbandoneda
E no se par che resòn"
La leggenda di Conturina – Canto popolare ladinico


Piccole scaglie di luce rilucevano sul velo della superficie. Conturina emerse e l’aria fredda le avvolse il lungo muso dentato. Morbide onde presero a scrosciarle contro i fianchi e la giovane ittiosaura sfiatò fuori un lungo pennacchio di aria e salsedine.Trasse due lunghi respiri per assaporare l’aria frizzante della mattina. Il vento portava un odore pungente, qualcosa di simile alle alghe essiccate, ma con delle note finali più dolci. Note di cibo che si stava radunando poco lontano, promettendo un lauto banchetto.Conturina nuotò a pelo della superficie e un paio di volte inclinò il muso verso l’alto, così da avere gli occhi completamente fuori dall’acqua. In effetti, in un cerchio di acqua più chiara, il mare sobbolliva e si rimescolava di pesci argentati e cefalopodi che balzavano fuori dalle creste di spuma.L’odore di alghe si fece più forte, quasi piccante e la fame mordicchiò lo stomaco della giovane ittiosaura.Riconobbe le scodate e le pinne di qualche suo simile. Doveva affrettarsi se voleva addentare qualcosa.Schiaffeggiò l’acqua con la coda e si immerse. L’enorme banco di pesci le comparve davanti appena oltre il velo azzurro dell’acqua, una scogliera verticale coperta di scaglie cangianti. Ma non era quello il vero bottino.Ai margini del branco guizzavano nugoli di tentacoli carnosi, il corpo paffuto che nuotava grazie alle pieghe del mantello. Bocconcini di grasso che aspettavano solo di essere addentati. Altre fitte acute pungolarono lo stomaco di Conturina e la sua coda si mosse quasi da sola.Scattò in avanti verso la preda più vicina. Quella dette due colpi di tentacoli. Scartò a sinistra, ma l’ittiosaura aprì le grandi pinne pettorali in una brusca imbardata.Piegò il collo all’indietro e le sue fauci si chiusero su quel corpo molliccio. Spremette fuori una nuvola di inchiostro nero e in un paio di morsi mandò giù il calamaretto. Ma era tutt’altro che sazia.Le pinne presero a formicolare di eccitazione per la nuova caccia e subito Conturina si gettò nel banco. La scogliera di scaglie argentate si apriva e si chiudeva attorno a lei e agli altri ittiosauri, in un rimescolio continuo di mare libero, inchiostro e scaglie.A parte i suoi congeneri, la giovane femmina scorse anche dei mixosauri, animali simili a lei salvo per la schiena sormontata da una pinna ricurva. Avevano anche un modo diverso di nuotare: la coda schiaffeggiava l’acqua mentre il corpo era rigido come un tronco di legno, persino le corte pinne pettorali rimanevano immobili.Sembravano dei cuccioli sgraziati. Come si faceva a nuotare in quel modo?Però erano veloci. Guizzavano da ogni parte del banco. Colpivano con muso e coda i pesci più lenti per poi tornare ad addentarli. E, cosa più importante, lasciavano a Conturina gli animaletti tentacolati.Dopo un po’ di tempo, il banco di pesci prese lentamente a sprofondare nella zona più oscura del mare e gli invitati del banchetto si dispersero poco a poco.Era stata una grassa mangiata, che purtroppo non si sarebbe ripetuta per un po’. Ma almeno per adesso Conturina poteva rimanere a galleggiare con la pancia piena, sotto i raggi tiepidi del sole.Una leggera vibrazione prese a solleticarle la mandibola. Nell’acqua echeggiò un canto dolce e amichevole proveniente da altre due giovani femmine poco lontano. Lei rispose con un morbido bruito, che si spanse in onde lente nell’acqua fino a raggiungerle. Le conosceva da quando era cucciola, dato che erano nate nella stessa marea all’interno della Laguna. Erano praticamente sorelle.La più piccola delle due emise un gorgheggio festoso, che in acqua divenne una serie di onde corte e rapidissime. Era quasi giunta la Marea dei Canti e presto i maschi avrebbero cominciato a esibirsi!
Anche l’altra sorella sembrava eccitata. Rollava e imbardava per gioco come una cucciola attorno a Conturina, canticchiando con onde irregolari.
Lei rispose a tono con un canto basso e rassicurante, in cui si innestavano note più chiare. Onde basse e lente miste a picchi repentini. Era abbastanza orgogliosa della sua melodia, viste tutte le maree che aveva impiegato a costruirla, ma dentro di lei, in fondo alla pancia, si agitava una paura fredda. Avrebbe trovato qualcuno a cui cantarla? Qualcuno sarebbe rimasto ad ascoltarla o persino a duettare con lei?Nuotò e canticchiò un po’ con le sue sorelle, cercando di non pensarci.Un fronte d’onde rabbiose smosse l’acqua attorno a loro. Le voci delle tre giovani femmine furono zittite di colpo da un’altra più ampia e cupa.Fu come ricevere una scodata proprio sulla mandibola, che prese a dolere a ogni onda vibrazionale che si infrangeva addosso a Conturina e alle sue sorelle.Da oltre il manto d’acqua sbucò la sagoma tonda ma comunque aggraziata di una loro congenere più anziana. Le lunghe pinne pettorali erano segnate da file di cicatrici ondulate, incise a distanza regolare: i morsi d’amore dei numerosi amanti avuti a ogni Marea dei Canti. Inoltre, sotto al ventre palesemente gravido, nuotavano ancora due cuccioli belli paffuti.Gli occhi verdi della matriarca squadrarono le tre giovani con sdegno. Cosa pensavano di concludere con quelle canzonette frivole? Alla loro età lei era già al secondo parto e invece loro erano ancora a giocare con le sorelline di laguna, senza produrre delle onde con un minimo di scorza.Conturina si sentì di colpo piccola e insignificante di fronte a quel timbro così deciso. Nessuno avrebbe mai voluto cantare con lei. Nessuno.
I due cuccioli nuotarono verso di lei e le sue sorelle, curiosi, ma la matriarca rugliò subito per ricondurli sotto le proprie pinne. Ai suoi tempi o si cantava a modo o si stava zitte.
Per le sorelle di Conturina fu come se nulla fosse successo e ripresero a garrire e gorgheggiare tra di loro.Lei invece non faceva che ripensare alla propria canzone, a tutti i difetti della melodia, del tono moscio… La sua voce non era neanche lontanamente incisiva come quella della matriarca. Forse per quella stagione sarebbe stato meglio rimanere in silenzio.Seguì le altre due giovani femmine finché non si trovarono davanti alla scarpata di roccia. Lo strato superiore era ammantato da un vellutino verde di alghe, che verso il basso veniva sostituito da cespi più scuri e fogliosi man mano che la parete sprofondava nel blu inchiostro delle profondità.Tutt’attorno fluttuavano gruppetti di ammoniti, protette da conchiglie scanalate. Pesci grossi quanto un cucciolo nuotavano poco distanti dal ciglio della scarpata, su cui invece erano acquattati dei tanistrofei, strani animali provenienti dalla superficie: il corpo piatto, con quattro zampe artigliate, era dotato di un collo sproporzionatamente lungo, che si protendeva oltre la parete di roccia in attesa di qualche pesce che risalisse da sotto.Conturina li aveva sempre trovati buffi, nel loro essere indecisi tra terra e acqua. Da cucciola a volte giocava a inseguirli per la laguna finché non li costringeva a zampettare di nuovo sulla terra emersa. In acqua sembravano più a loro agio, senza il peso di quel collo lunghissimo.La prima canzone fermò i suoi pensieri. Un bubbolio singhiozzante echeggiava nell’acqua sotto forma di onde corte che schiaffeggiavano la mandibola di Conturina.Appena oltre la scarpata, sotto il pelo dell’acqua, nuotava un giovane maschio. Scodava in superficie e sbatacchiava le ampie pinne pettorali per direzionare il suo canto proprio verso loro tre, ma senza nessun ritmo. Rompeva le onde al momento sbagliato, dissipando quasi tutta la sua canzone. Il risultato era incredibilmente fastidioso.Le due ittiosaure più giovani però cominciarono a sdilinquirsi in richiami di risposta e colpetti di pinna alla superficie, per invitarlo a continuare.Davvero si accontentavano di così poco? Non avrebbero preferito un cantante un po’ più consapevole della propria voce? Quello sembrava solo un cucciolo che tentava di cantare a modo suo senza capire il funzionamento delle onde acustiche. Tentava anche qualche tuffo sgraziato fuori dall’acqua, con l’unico risultato di creare una cacofonia di scrosci che azzittì qualsiasi accenno di melodia.Una punta di vergogna però prese a pungolare il ventre di Conturina. Nemmeno lei poteva vantare chissà quale bellissima canzone. Era la sua prima Marea dei Canti e forse sarebbe stato meglio rimanere solo ad ascoltare.Ma poi le arrivò una nuova melodia, calda e penetrante. Il timbro basso aveva la stessa potenza di quello della matriarca e rimbombava nelle ossa di Conturina, ma in un modo gentile e persino… seducente.Veniva dalle isole appena dopo la barriera corallina.La giovane ittiosaura decise di seguirla, come rapita. Voleva ascoltare ancora e più da vicino quella voce.Il fondale sotto le sue pinne cambiò: tra le rocce e la sabbia si innestavano colonie di conchiglie dalle valve semichiuse, si innalzavano i lunghi steli segmentati dei crinoidi, i tentacoli piumosi allisciati dalla corrente marina e zampettavano animaletti ricoperti da piastre rosso-arancio, che stridulavano e ticchettavano in mezzo alla sabbia.I loro versetti però erano solo un mormorio di fondo rispetto al canto baritonale che scuoteva l’acqua tutt’attorno. Qualche volta, arrivavano anche degli schiaffi secchi e precisi, che rifrangevano le onde più marginali e mandavano la voce proprio addosso a Conturina. Era come se chiunque ci fosse dall’altra parte stesse cantando solo per lei.A quel pensiero un calore dolce le sbocciò nel petto.Allora perché lei non rispondeva? Le sue sorelle non avrebbero esitato un secondo… ma se poi la sua voce non fosse stata altrettanto piacevole per il suo corteggiatore? Se lui si fosse stizzito e avesse smesso di cantare?Conturina si sentiva ancora addosso gli occhi della matriarca, pronta a zittirla di nuovo con la sua voce possente se si fosse azzardata a cantare di nuovo. No, non era ancora pronta per un duetto.L’acqua divenne sempre meno profonda. Era praticamente dietro la Laguna, dove le femmine gravide andavano a partorire e allevare i cuccioli, ma non era così insolito che i corteggiamenti si tenessero lì vicino. Anzi era segno di coscienziosità da parte del maschio invitare la partner in un luogo appartato come quello.Fuori dall’acqua, l’aria aveva il tipico odore resinoso delle alghe terrestri. Sopra le cime rocciose delle isole il cielo rannuvolava, pregno di un odore simile alla cenere che qualche volta sfiatava dai vulcani. Se si fosse messo a piovere, il ticchettio dell’acqua avrebbe spento per un po’ il canto del maschio.
Ma quello non era il problema più urgente.
Dalla sabbia si sollevarono dei colli corti e tozzi in cima ai quali spiccavano degli orrendi musi da carnivoro: i denti protesi in fuori tanto da sembrare deformi.
Conturina era così vicina da poter vedere gli occhi piccoli e cattivi dei notosauri. E fissavano proprio lei.
Gli artigli delle zampe palmate grattarono la sabbia e la giovane ittiosaura sentì delle fitte di dolore inciderle la carne dei fianchi.
Aveva visto quei carnivori tendere agguati persino ai suoi congeneri adulti. E su quella spiaggia c’era un intero branco che la fissava con insistenza.
Brividi gelati le penetrarono fin nelle ossa. Forse avrebbe dovuto riprendere il largo. In acque aperte sapeva di poter essere molto più veloce di loro.
Il canto del suo corteggiatore però riprese, una vibrazione carezzevole come una corrente di marea. La chiamava. La rassicurava.
Schiaffeggiava con forza la superficie del mare aggiungendo anche qualche schiocco di mandibole.
Era vicino.
E se lui cantava in modo così deciso in quelle acque significava che erano sicure. Forse.
Conturina riprese lentamente a nuotare, un occhio sempre fisso sulla spiaggia dei notosauri. Questi dopo un po’ sembrarono perdere interesse e tornarono a rotolarsi nella sabbia.
La voce intanto cantava e cantava come se aspettasse solo una risposta da Conturina.
Il desiderio di rispondere al canto le faceva formicolare le pinne. Un istinto, in fondo alla pancia, le suggeriva di dare un paio di schiaffi e scodate alla superficie per far percepire il suo interesse.
Ma così facendo non avrebbe più potuto spiarlo in silenzio.
Avrebbe dovuto cantare.
Il solo pensiero le chiudeva il petto in una morsa.
Arrivò nella grande baia di un’isola, l’acqua così calma che a stento sentiva le spirali delle onde sulla propria pelle. Il fondale era coperto dai fasci verdi delle alghe e dai tentacoli giallo brillante dei crinoidi; nelle poche chiazze di sabbia libera e tra le rocce strisciavano animaletti dai gusci marrone lucido.
E non era un fondale silenzioso: i crostacei stridulavano con le loro mandibole, i pesci potpottavano sommessi e persino dalle spugne cave arrivava un sibilo acuto, provocato dall’acqua che entrava nel grande foro centrale e usciva dai tanti forellini laterali.
Conturina capì di colpo come mai il maschio stesse cantando proprio da quell’isola: tutto il fondale gli faceva da coro e la sua voce si armonizzava con il resto del paesaggio sonoro. Non era solo un maschio maturo, ma anche attento a conoscere il suo territorio.
In superficie, verde lucido delle maestose alghe terrestri avvolgeva da ogni parte la baia, lasciando solo una lingua di sabbia chiara.
Nessun predatore in vista. E sopra i fusti nodosi delle alghe terrestri, sopra le loro chiome fitte, incombeva una enorme montagna di roccia nuda e grigia, la cima avvolta dalle nubi. Un vulcano.Infatti, c’era un altro rumore di fondo nella baia. Basso ma costante, possente e insieme gentile come la voce di una madre.

Almeno per ora. Era un mormorio petroso che saliva direttamente dal fondale. Era il rumore del fuoco che ribolliva sotto le rocce, da cui si irradiava un piacevole calore.Quello era un luogo troppo bello per essere reale e Conturina non poté più trattenersi. Si mise su un fianco a pelo d’acqua e dette due energici colpi di pinna e persino uno di coda per far sentire il suo apprezzamento al cantore.La voce scomparve. Tutti gli altri suoni della baia persero significato e tornò a esserci solo un brusio confuso.Eppure il maschio doveva essere lì, da qualche parte. Lei avrebbe dovuto vederlo!Invece era sola in quel luogo di colpo uguale e noioso come tutti gli altri in cui nuotava di solito.
Il suo stomaco si fece pesante, come avesse mangiato sassi, e si lasciò ricadere sotto la superficie. Sarebbe dovuta tornare indietro dalle sue sorelle, ma il pensiero di nuotare la faceva sentire ancora più stanca. Cercò di concentrarsi sulle cose positive: non avrebbe dovuto cantare per il suo corteggiatore, lui non avrebbe sentito la sua canzone senza scorza. Si era risparmiata quell’umiliazione.
Onde piccole e rapide le solleticarono la mandibola. Il suono secco di altri schiaffi alla superficie scoppiò come un tuono nell’acqua.E, finalmente, lo vide dall’altra parte della baia.Era un maschio forse un po’ più grande di lei, le lunghe pinne pettorali piene di graffi e intacche, la destra sbeccata all’estremità. La pelle era grigia come le nubi dei monsoni, tranne che per la striatura più chiara lungo il fianco.Dette uno, due, tre schiaffi e poi un colpo di coda, per incitare Conturina a rispondergli.Lei temporeggiò con qualche altra scodata giocosa, come fossero solo due cuccioli nella Laguna protetta. Lui però insisteva. Voleva sentire la sua voce.Nel ventre di Conturina qualcosa si agitò e si rimescolò come onde in una mareggiata. La sua stessa voce premeva contro le costole, implorandola di lasciarla uscire. Lei stessa lo desiderava.No. Non poteva più aspettare. Il desiderio era più forte della paura.
Cantò la stessa canzone di sua madre, un ritmo carezzevole fatto da guizzi di onde rapide immerse in toni più cupi che vibravano nell’acqua. Conturina doveva rugliare e mugghiare dal profondo della pancia, contrarre i muscoli con tutte le forze per produrre le onde della giusta lunghezza.
Divenne pian piano consapevole anche degli altri rumori della baia. Il mormorio petroso del vulcano sembrava guidarla tra le varie tonalità e pian piano la giovane ittiosaura si accordò anche al resto del fondale.Il maschio nuotò in una spirale sempre più stretta attorno a lei, fino a trovarsi al suo fianco. Solo in quel momento lei notò le lunghe strie bianche di cicatrici che gli segnavano il dorso e si chiese quante volte avesse affrontato i predatori.Era forte. Sano. Conosceva bene la musica del suo territorio.
E anche lei sembrava piacere a lui. Non aveva interrotto la sua canzone neanche una volta e quando si mise a seguire la sua melodia, Conturina sentì fiorire dentro di lei un calore buono e rassicurante.
Nuotarono pinna a pinna finché non finirono la canzone. E quando lui prese a darle dei morsetti giocosi sulla coda e sulle pinne lei non protestò. Seguì i suoi movimenti nell’acqua come in una danza, cullata dai suoni del fondale.Cantarono e si amarono per un tempo indefinito. La matriarca e i suoi giudizi erano confinati in un luogo lontano, insieme ai predatori e a tutte le altre cose brutte del mare. Fuori da quella baia incantata che era solo e soltanto di Conturina e del suo cantore. Non smisero di cantare nemmeno quando gli scrosci della pioggia, i tuoni e il ticchettio incessante sulla superficie confusero le loro voci.Uscirono dalla baia solo dopo un ciclo di marea, per raggiungere la laguna. Lì il fondale era un ammasso di bitume nero e silenzioso, da cui affioravano carcasse mezzo-sepolte.Il maschio lasciò la sua compagna sulla soglia di quel luogo protetto. Fu un addio senza dolore né effusioni, come un’onda che si ritira dalla spiaggia dopo un’intensa mareggiata.Adesso, tutto lo spazio nella mente di Conturina era dedicato al frutto di quell’amore.Una volta sola nella laguna, infatti, si mise a cantare per i piccoli nella sua pancia. Cantò la stessa canzone di sua madre, ma anche qualche frammento della serenata del suo compagno. Le cantò con una tale convinzione che credette di imprimerle nella roccia.